LA CITTA' E IL DEMONIO - Leggi i primi capitoli

PARTITA A POCHER NEGLI ALTI SALOTTI OVATTATI E DORATI DEKLL?ALTA E ALTUSSIMA ELITE; DELL'ALTA E ALTISSIMA CULTURA CHE INDEFESSAMENTE PENSA E LAVORA PER NOI PER I TERREMOTATI; PER GLI AFFAMATI; PER GLI ASSETATI DELLA TERRA
PARTITA A POCHER NEGLI ALTI SALOTTI OVATTATI E DORATI DEKLL?ALTA E ALTUSSIMA ELITE; DELL'ALTA E ALTISSIMA CULTURA CHE INDEFESSAMENTE PENSA E LAVORA PER NOI PER I TERREMOTATI; PER GLI AFFAMATI; PER GLI ASSETATI DELLA TERRA

GIOSUÈ –GROTTESCO STRAVINSKIJ- parte prima - capitolo I

 

Il cielo Malva 

 

In quella notte il cielo di Torino si ricoprì di una nube color malva. La videro gli ultimi nottambuli e la sognò l’Editore Assalonga risvegliatosi con un’acuta sensazione di disagio. Ricordava il cielo malva, le acque vorticose del Po’ e un piccolo demonio che sul ponte di Corso Regina, lo fronteggiava «Lei è matto! Io vendere la mia Enciclopedia al Gagà?» ma quel demonietto, piccolo e maligno, non demordeva «Questa si che è tutta da ridere!» E rise, infatti, l’Assalonga, rise come un ossesso! Lui vendere la Gran Diderot? La Summa del secolo, l’arabesco sinfonico? L’opera che l’avrebbe reso immortale? «No!» ribadì. Venderla a quell’infido pieno di sé, a quell’Einaudi falso e cortese, a quel Sotutto che lo guardava come una cacca? «Non se ne parla!» E liquidò la faccenda con un’altra risata, per ritrovarsi, in meno di un amen, sospeso sui gorghi del Po’ mentre, terrorizzato dai vortici, urlava che sì, che avrebbe venduto al Gagà, al che, di colpo, fu salvo sul ponte a fissare l’improbabile botolo; poi il ponte e il demonio scomparvero, mentre lui veniva morsicato da un cane.

 

«Che brutto sogno!» pensò guardando le sue gambe rachitiche «Ma cosa ho sognato?

Con un balzo fu in piedi «Al lavoro! Al lavoro!» gridò ma il suo prodigioso balzo in avanti fu bloccato da un lancinante dolore al polpaccio. «E cos’è questo?» borbottò osservando i segni di un morso. Ma era volitivo e dinamico il tremendo Assalonga e, così, riavutosi dalla sorpresa, rigettata quella demenza notturna, si alzò, si lavò e, fasciatosi con una garza, zoppicando, volò in editrice con la sua Alfa mentre la portinaia anonimamente telefonava a La Stampa che quel sozzone dell’editore Assalonga, uscito a mezzanotte in vestaglia come un vampiro, era rientrato alle tre, scarmigliato, con la gamba grondante di sangue, per rifugiarsi di sopra, donde era appena riemerso candido come una rosa.

«Forse vuol dire fresco come una rosa» l’aveva interrotta il giornalista e lei, stupefatta, irritata, infuriata l’aveva mandato all’inferno.

L’Assalonga entrò in editrice, si rinchiuse in ufficio e alienò per telefono all’odiato Gagà la sua amata Enciclopedia. “Ma perché ho ceduto la mia Enciclopedia al Gagà?” si chiese confuso “Perché proprio a lui che mi guarda come una cimice.” Ma l’Assalonga era chi era e, superato il deprecabile attimo, fece convocare il Critico Gauss e il traduttore Bombelli dalla sua grigia, efficiente segretaria Gauss, che all’istante provvide, mentre come falchi dal cielo piombavano facchini, avvocati, dirigenti del famigerato Gagà per ritirare elaborati e contratti, tra la sconcertata incredulità dei dipendenti che subito improvvisarono un nervoso, allarmato pellegrinaggio all’ufficio dell’Assalonga. Un pellegrinaggio che, vanamente ostacolato dalla signora Gauss, fu annientato in un amen dal mastino Assalonga con una sola, breve, secca abbaiata.

Li cacciò ma cadde in struggente scoramento, il disperato Assalonga: “Ma perché l’ho ceduta al Gagà?” ripeté, fino a che, esaurite le lacrime, si rimise al lavoro, mentre l’intera editrice bolliva e decretava un Assalonga impazzito. Una contabile parlò del cielo notturno color malva e dei torinesi «Sembrano tutti assatanati.» sibilò e afferrato il telefono comunicò a La Stampa l’incredibile vendita.

«E allora?» chiese il giornalista.

«E’ come se avesse venduto il suo cuore» gli rispose la contabile.

L’unico a non rammaricarsi fu il critico Gauss che commentò:

«Meglio così! Non falliremo noi, ma l’Einaudi.

«Dice così perché non è fra gli autori.» sibilò a mezza voce la vecchia zitella della contabilità «Quel pomposo sa solo trombare attricette! Povera moglie!», «E chi andrebbe con quel frigorifero» commentò un’altra voce. E con ciò si chiuse questo stralunato intermezzo perché, se i dipendenti detestavano il critico Gauss, non amavano certo la sua austera e rigida moglie, più potente dei dirigenti, l’unica a dar del tu al padrone, anche se qualcuno insinuava che la grigia segretaria, colorata e vestita come si deve, non era poi male.

Intanto il giornalista, posato il telefono, si era recato dal direttore, a riferire della prima e della seconda telefonata al che il direttore, sogghignando all’immagine di un Assalonga nudo e notturno che vendeva la sua Diderot al Gagà, sbuffò:

«Vedremo. Ora indaghiamo sulla nube purpurea.

«Non è così che si fa un giornale!» borbottò il giornalista, rifugiandosi in bagno.

L’editore Assalonga assegna i compiti

Privato della sua amata Enciclopedia, l’Assalonga, per celebrare il ventennio della casa editrice, decise di stampare il primo dattiloscritto pervenuto in lettura vent’anni prima. Ricordava un romanzo che parlava, di Foibe e Titini, impubblicabile quindi, in quei tristissimi tempi ma pubblicabile ora.

L’Editore aveva a suo tempo risposto all’autore: “Apprezzo la sincerità, la passione con cui lei scrive ma lo stile, sovrabbondante negli aggettivi, andrebbe domato. Consiglio una riscrittura conforme”; consiglio che non era stato accolto visto che, tre anni dopo, la riscrittura s’era rivelata un pasticciato collage del vecchio romanzo e di secondo totalmente diverso. Così anche quella seconda versione era finita a dormire in archivio.

«Bene» commentò la signora Gauss con avaro sorriso «Vado in archivio» disse e, senza indugiare, sparì.

“Perché ho venduto l’Enciclopedia?” tornò a chiedersi amareggiato, grattandosi la ferita alla gamba. Ma la visione dell’odiato Einaudi in galera, gli riportò l’allegria. L’Assalonga rise fra sé: “Quello stupido snob!” s’infiammò “L’arlecchino che fa Tik-Tak!.. Ma che dico? Sto impazzendo?” Ma neppure l’inquietante dubbio riuscì a fermare il delirio.

Quello stesso giorno i dattiloscritti, ripescati in archivio dalla signora Gauss, furono assegnati da un euforico Assalonga al professor Fato Bombelli, traduttore, e al critico Gauss, marito della signora Gauss nonché critico letterario, assai poco apprezzato dall’Assalonga.

«Ma questo Bombelli…?» aveva chiesto dubbioso alla signora Gauss.

«Si è dimostrato un ottimo revisore.» aveva risposto lei asciutta e l’Assalonga aveva accettato il suo competente giudizio, anche se quel Bombelli gli rompeva periodicamente i marroni per poter firmare recensioni; destinate, purtroppo, a quell’infido Gauss, che cornificava la moglie con attricette.

Quando i tre si riunirono nel suo studio, l’Assalonga affidò l’editing al professor Bombelli e la supervisione al critico Gauss:

«Questo è il primo romanzo inviato in visione alla casa editrice: un nuovo Faust? La storia di un bilioso esule? Non ricordo! Forse anche un pasticcio teologico. Ricordo che comincia con Satana che sale in paradiso per sfidare dio e scopre che dio è scomparso e poi…, beh, ve la vedrete voi…» si alzò sorridente e con due energiche strette di mano li liquidò.

Nessuno dei tre immaginava allora, ricevendo copia dei manoscritti, che i protagonisti del romanzo fossero vivi e vegeti.

 

Al critico Gauss non piacque per nulla quella supervisione. Che senso aveva? E poi che c’entrava quel grigio Bombelli. “Bombelli!” ruggì dentro di sé. “Il critico Gauss ti spremerà fino all’ultima goccia” sogghignò: “Rifare!”, “Rifare!”, “Rifare!” esultò pregustando la nuova tortura.

“L’ultimo supervisore sono io” rideva fra sè un gongolante Assalonga. “Lui in giro a trombare attricette e veline e lei, grigia, a invecchiare…”

Chiuso il colloquio, li accompagnò alla porta, dove salutò con rispetto la signora Gauss, tessendo, con sarcastica malignità, brevi ma intensi elogi alle sue immense doti, e lasciando chiaramente trapelare, che, se quell’odioso e pomposo Gauss scriveva articoli e recensioni, il merito era tutto di lei.

«Ah, che splendore di donna ha sposato, critico Gauss!» declamò con mellifluo sogghigno mentre il critico annuiva con sorriso forzato, giallo e tirato come un limone. «Mi dissangua con lo stipendio, caro Gauss, ma se lo merita e come! Dirige, assegna, programma, controlla… Come farei senza di lei?»

 

Anche il mite e timido Fato Bombelli s’era stupito per la stranezza dell’incarico. Era sempre la signora Gauss, a consegnargli con magro sorriso il dattiloscritto. Lo faceva firmare e si salutavano: lei, meccanicamente austera e gentile, gli augurava un buon lavoro e lui, a capo chino, ringraziava. Mai avrebbe allora immaginato che di lì a poco si sarebbe perdutamente innamorato di lei.

 

Fato Bombelli, a casa, aprì il pacco del dattiloscritto, lo soppesò e lo spulciò, irritandosi per i fogli non numerati. Numerò quindi le circa duecentocinquanta pagine nello stesso ordine con cui le aveva ricevute. Mentre numerava, notò che a un’introduzione seguiva un secondo capitolo: Giosuè all’Asilo, un terzo Giosuè e la Mamma, un titolo senza capitolo, un sesto La professoressa Alsazia, altri capitoli senza titolo e due indici diversi fra loro. Deducendo una consegna incompleta, telefonò alla signora Gauss, che gentile e formale, rispose:

«Ormai è tardi, professore. Possiamo sentirci domani nel primo pomeriggio?»

Il professore ringraziò, piacevolmente sorpreso dalla gradevole voce di lei e, nutritosi parcamente con una densa minestra, inizio la lettura.

 

Vita all’asilo

Fin dal primo giorno Giosuè fu presente al catechismo di suor Ermergarda che, alta, diritta, severa domava la sregolata marmaglia, disponendola in circolo nella sala più grande. La sala terminava con un gran semicerchio e solenni finestre sormontate da archi che si spingevano fino al soffitto. Tanto grandiose che il lillipuziano Giosuè, in piedi, al centro del cerchio, vedeva il parco, il gioco da bocce e, oltre la cinta, il campanile e le lontane montagne.

Lungo quel circolo stavano i piccoli banchi dei bimbi sfrenati mentre al centro stava suor Ermergarda che, fin dal suo primo apparire, domò la scomposta feccia col fuoco degli occhi. Diceva: «Seduti!» e la feccia vigliacca s’accucciava in silenzio, ogni bimbo al suo banco. Così l’agglomerato pestifero di piccole belve, ridotte a pecore vili e meschine, ascoltava suor Ermergarda che parlava di Dio.

Dalla sua voce Giosuè imparò il catechismo e la Bibbia. «Genesi, Esodo, Levitico, Numeri» recitava tonante suor Ermengarda «Giudici, Deuteronomio, Giosuè, Ruth, Primo Re, Secondo Re, Terzo Re, Quarto Re, Primo Paralipomeni, Secondo Paralipomeni, Primo Esdra, Secondo Esdra, Tobia, Giuditta, Ester, primo Maccabei secondo Maccabei Giobbe e Salmi, e tutti i bimbi ripetevano a turno ma Giosuè non riferisce neppure quali spropositi uscivano dalle bocche di quei poveri scemi, capaci solo di sporcarsi come maiali, ridere, piangere, bagnarsi le brache, infilare un dito nel naso e succhiare quel dito.

Giosuè si chiedeva perché non riuscissero a pronunciare ‘Paralipomeni’, perché ridacchiassero a sentire il nome di ‘Ruth’, perché confondessero Esdra con Ester, perché riuscissero solo a strillare, rugnare, ridere e parlare di ‘pappa’ e di ‘bombo’, di ‘pipì’ e ‘pupù’, mentre solo Giosuè declamava solenne i libri e i profeti: Proverbi, Sapienza, Ecclesiastico, Baruch, Daniele, Ezechiele, Osea, Ioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Cantico dei Cantici.

Giosuè, accettato all’asilo nonostante i suoi brufoli, fu subito messo da parte. Questo non dispiacque a Giosuè ché, anzi, fin dal primo e isterico giorno d’asilo, disprezzò quei fifoni rugnanti che volevano mamma, si aggrappavano a mamma e facevan cagnara disubbidendo alle suore, prendendosi a calci e prendendole a calci.

 

Suor Eugenia sorvegliava quei bimbi e doveva spesso sgridarli, perché, santo cielo, dopo aver detto e ridetto: «Mettetevi in fila, aprite la valvola, prendete il sapone, bagnate le mani, insaponate le mani, risciacquate le mani, asciugate le mani» doveva correre fra quei tre rubinetti perché il primo non rimboccava, il secondo annaffiava i vestiti, il terzo annaffiava il secondo e così quei gaglioffi, che prima ridevano e urlavano come baluba, alla fine si mettevano a piangere e la suora accorreva per dire «Povero caro! ».

Questo Giosuè lo capiva per\ché i gaglioffi rompevano i timpani ma non che la suora facesse le coccole sbaciucchiandoli a destra e a sinistra.

Giosuè esecrava in silenzio che esseri come le suore sbracassero in quella maniera. Esecrava che fossero fatte - non certo suor Ermergarda - di pasta tanto plebea. Esecrava che, quando un qualsiasi acefalo importunava una volta, un’altra, una terza, suor Eugenia, in nome di una seria statura morale, non afferrasse con una mano quel bimbo e rifilasse uno schiaffone con l’altra. Ma Eugenia era com’era e Giosuè non poteva certo approvare quell’abbandono dell’etica, quel cedimento morale che permetteva al bimbo di fare l’idiota e alla suora di curare l’idiota.

Così quella suora non avrebbe dovuto sgridare Giosuè quando rifilava qualche sacro ceffone allorché, messosi in fila, svolgeva i suoi compiti con decenza e decoro, non rifilava calci e spintoni, ma neppure li accettava senza fiatare. Perché non capiva che Giosuè collaborava con lei per la dignità dell’asilo? Perché non vedeva quanto Giosuè aspettasse con santa pazienza il suo turno e, senza bagnare, compisse le dovute abluzioni, passando da un’insaponatura completa, a un risciacquo abbondante per, infine, nettarsi con uno straccio ormai lurido dei letami dei bimbi?

Eugenia diceva ‘Bravo’ a Giosuè, quando, al termine di un’abluzione esemplare, mostrava le mani, sulle palme e sul dorso, ma sgridava quello stesso Giosuè quando, scalciato, rispondeva scalciando. Allora quell’Eugenia plebea dimenticava quei ‘bravo’ e anzi, coccolando il selvaggio, gli diceva «Stai bravo, ecco il bombo» regalando davvero un bombo a quel bimbo che pappava quel bombo alla faccia del mondo, della stupida suora e dell’innocente Giosuè che, pigliatosi il calcio, si mangiava la bile, mentre il bimbo, rifilato quel calcio, si mangiava quel bombo.

Deprecava Giosuè che nei cessi la teppaglia la facesse al’esterno del buco, e, non contenta, cadesse in quel buco e, non contenta, si riempisse di cacca, per poi mettersi a piangere e invocare la suora che accorreva a salvare quell’ebete, a rincuorare quell’anima, come se fosse impossibile mettersi in posa e restarci invece di alzarsi, girarsi, toccarsi e lasciarne da tutte le parti. Deprecava Giosuè che quella suora ordinaria accompagnasse le pesti fuori del bagno, prendesse uno straccio - sempre lo stesso - e, dopo averlo inzuppato, pulisse i culetti, controllando la cacca e addirittura assaggiandola, per poi assolvere con buffetto affettuoso il caccatore di turno e, col sorriso e un «Avanti!», avviare la peste seguente, la cacca seguente.

Giosuè non volle mai accennare come nel suo bagno di casa, sgrossasse con la carta la cacca, per poi farsi il bidè con acqua e sapone, come conviene a un bimbo civile e non a quei barbari e a quella porcacciona di suora, ma ribadì di rifiutare lo straccio e di volerne uno nuovo. Un nulla secondo Giosuè, ma un obbrobrio per quella suora plebea che gli assaggiava la cacca e dava un giudizio, che Giosuè, per decenza, non vuole ripetere. Ma tant’è, pensava Giosuè, c’era pur un motivo se Ermergarda declamava i profeti e Eugenia puliva le cacche.

E così da quel giorno Giosuè portò da casa il suo straccio con cui si nettava e puliva per poi nasconderlo in un sacchetto di nylon in cartella e farlo lavare. Ma la cosa creò un’inimicizia profonda tra Giosuè e quella suora indecente che continuò a pulire, annusare, assaggiare la cacca di tutti ma non di Giosuè che rifiutava tanto lo straccio che l’esame del gusto dal quale forse la suora, nella sua indegna ignoranza, rintracciava essenze sulfuree o tracce di demoni.

Ciò nonostante Giosuè non può che concludere che fu molto felice all’asilo; correva in cortile, correva nel campo da bocce, saliva sui piccoli platani, scavava, sradicava gramigna, cantava nel coro, recitava con tutti la preghiera e, da solo, i profeti. I nomi di Genesi Esodo Levitico Numeri Giosuè e quelli di Isaia, Geremia e Giona, risuonavano nel grande stanzone mentre l’agglomerato taceva e sentiva Giosuè declamare i profeti guardando verso suor Ermergarda che mandava lampi d’orgoglio.

Poi continuava, Giosuè, con le corse in giardino e coi giochi nell’aula, dove, conscio dei bubboni del volto, appartato in un angolo, osservava il flusso del mondo, le bave dei bimbi e i loro disastri.

Benché Giosuè li evitasse e si tenesse lontano, i ragazzi non sempre lo lasciavano in pace. Lui, nel suo angolo, tutto voleva tranne che sentirsi toccato da loro che, perversi com’erano, cercavano invece Giosuè.

Così, all’improvviso, Giosuè veniva visto, raggiunto, scrutato, interrogato nella lingua ostrogota dei bimbi che volevano macellare i suoi occhi, strizzargli i bubboni, prenderlo a calci e, alla fine, mettersi a piangere quando Giosuè rispondeva ai calci coi calci e, in nome di un’etica biblica, assumeva un aspetto diabolico. Gonfiava il collo, Giosuè, gonfiava le vene, digrignava i canini e tratteneva il respiro, fino a che il sangue affluiva colorando di rosso carminio la faccia, le gote, le vene e le pustole. Poi ringhiava rabbioso, Giosuè, aprendo e chiudendo le fauci, per spaventare la feccia e tenerla lontana.

 

Un fatto vuol citare Giosuè. Accadde, alla fine dei suoi anni d’Asilo, che si perse Graziano, un gran prepotente che detestava Giosuè che detestava Graziano. All’appello, dopo l’ora di giochi e balocchi, Graziano mancava e allora la suora si mise a cercare Graziano e a chiamare «Grazianoo!... Grazianoo!» assieme a tutte le pesti mentre Giosuè rimaneva tranquillo nel suo solito angolo, finché la suora non disse «Giosuè cerca anche tu!»

Giosuè, portandosi dietro la suora, si diresse al piano di sopra e in punta di piedi, entrò nella camera bianca, linda, pulita di suor Ermengarda. Ammirò, Giosuè, quella stanza essenziale con un rosario di grani nerissimi e un gran crocifisso “Ciao piccola stanza linda e pulita” disse Giosuè mentre di sotto la giuda arrivò ai bordi del pozzo dove giaceva Graziano.

 

Giosuè e le pale

 

A Natale, la nonna regalò a Giosuè La Bibbia dei grandi Maestri: un libro più grande di lui. Tanto grande e pesante che per spostarlo la nonna doveva aiutarlo. Giosuè avrebbe voluto guardarlo con mamma e papà, ma così non avvenne perché mamma, sollevando da terra Giosuè per baciarlo, chiese «Cosa borbotta il mio angioletto con quel libro più grande di lui?» e tanto sorprese Giosuè che la preziosa reliquia rovinò sul tappeto.

Giosuè indicava il suo libro, mentre la mamma continuava a baciarlo. Giosuè gridava che voleva il suo libro, ma la mamma rideva e baciava Giosuè che, irritato, dopo aver parlato e indicato, parlato e indicato, sbraitato e indicato, diede un morso al suo braccio e tutti rovinarono a terra sul libro, che Giosuè abbracciò con calore, mentre mamma, che prima baciava e rideva, ora urlava e correva a disinfettare la mano.

Giosuè spinse il libro sotto il sofà e quando mamma, tornata dal bagno, lo afferrò e cominciò a schiaffeggiarlo, Giosuè ci rimase di sasso, pianse di rabbia e, perso il controllo, quando mamma minacciò di bruciarlo, urlò: «Non è tuo, è di nonna! Non è tuo, è di nonna!» e, furente, afferrato il cappello di mamma, minacciò di distruggerlo, «Guai se lo fai!» sibilava la mamma «Guai se lo fai!» Ma Giosuè ormai tanto odiava la mamma che pensò di farlo comunque e, afferrato il cappello dai lati, fissò con odio la mamma, che divenne di ghiaccio «Non farlo!» sibilò e Giosuè non lo fece per salvare il suo libro ma così tutto virò in situazione di stallo con una mamma furente che fissava Giosuè e un furente Giosuè che fissava la mamma, fino a che non intervenne la nonna che, pretesi il libro e il cappello, salvò la mamma e Giosuè.

Questo fu il primo grande contrasto fra Giosuè e la mamma, troppo diversi per indole e percezione del mondo per convivere in pace. Per Giosuè da quel giorno la mamma fu teppa come gli acefali compagni d’asilo ai quali, se mamma fosse stata una suora, avrebbe solo pulito le cacche ma non certo spiegato la Bibbia.

La nonna e Giosuè, con gran rabbia di mamma e della sua stupida gru di plastica gialla, passarono intere giornate a sfogliare quel libro. La mamma diceva a Giosuè di giocare con quella stupida gru ma Giosuè protestava che la gru era gialla, era brutta e cadeva da sola. Tantomeno volle giocarci quando la mamma, legatala a un filo come un cane al guinzaglio, cominciò a trascinarla. «Cammina!» diceva la mamma «Vedi che bello!» Ma bello non era per niente e Giosuè, fattosi un giro di casa trascinando quella gru deficiente, non ne fece un secondo e, lasciata la gru, tornò a guardare il suo libro, tanto pieno di rabbia che, calata la notte, scese dal letto e col martello e tre colpi distrusse la gru e, giunte le urla e gli schiaffi di mamma, sopportò con pazienza perché la mamma era com’era e mica poteva far altro che urlare e donare stupide gru.

Giosuè passò giorni felici a perlustrare il suo libro. Lui e la nonna percorsero i visi dei severi profeti e le atrocità dell’inferno, Caino che uccideva il fratello e il vero Mosè. Giosuè recitava i libri e i profeti e la nonna diceva: «Giosuè! Quanto sei bravo!», «Giosuè ripeti i profeti!» E Giosuè ripeteva.

Sfogliavano il libro mentre nonna parlava incantando Giosuè. Narrò di Cimabue, di Leonardo, di Giotto e trasportò Giosuè su un tappeto volante in un viaggio nel tempo in cui visitarono Roma, Firenze, Milano, l’Olanda e Venezia e poi ci fu il gioco del chi, del come e del quando; del ‘Chi l’ha dipinto?’ , del ‘Dove’ è il dipinto? , del ‘Quando ha dipinto?’ in cui Giosuè cominciò presto a vincere mentre gli occhi di nonna ridevano pieni di luce «Giosuè sono tanto orgogliosa di te!», «Giosuè sarai Papa!»

Al mare

 

Quell’anno i dotti dottori decretarono per Giosuè il mare iodato dove il sole avrebbe prosciugato le pustole, livellato i crateri e dato al volto un superbo colore dorato.

Papà era scettico «Lo porterete a casa in barella» replicava papà che aggiungeva che mai e poi mai sarebbe andato alla spiaggia a respirare e mangiare la sabbia.

« E’ letame! La marmaglia ci mangia, ci sputa, ci piscia e ci sbava. E come volete vedermi? Distrutto dalla sabbia, dal sole, dai coglioni iodati, da bile e letame? E così finirà il ragazzo»

Anche Giosuè, che vedeva la fine del futuro Giosuè, voleva urlare che no, che non voleva né il letame né il mare ma poi con pazienza accettò. Lo fece per mamma: per prendersi cura di lei, per portarla al sole, al mare, allo iodio. Così partirono la mamma e Giosuè attrezzati da mare: ciambella con testa di cigno, salviette, costumi, cappelli e una cassa di unguenti, di oli e di creme che, in congiunzione con l’aria iodata, avrebbero salvato la mamma e Giosuè.

Così si trovarono, la mamma e Giosuè, a frequentare la spiaggia. La mamma al sole in bikini e Giosuè, trincerato nell’ombra a guardar la feccia scomposta che giocava alle biglie, costruiva castelli, divorava biscotti e beveva aranciate.

Giosuè leggeva montagne di Tex, che la mamma comprava in quantità oceaniche e sorvegliava la mamma che, non giocava ai birilli ma attirava i mosconi, esseri nuovi per l’arcaico Giosuè che, interessato a quel gioco, si mise a spiare la mamma, le mamme e i vigorosi, abbronzati mosconi che, ronzanti, sorridenti, ridenti atterravano sulle corolle di fiori e, sempre ronzando, parlavano come poeti di fiori e corolle, inneggiando alle corolle dei fiori, ridendo coi fiori e offrendo gelati ai figli dei fiori.

Si distrasse appena un momento, Giosuè per seguire un multiplo Tex inerpicarsi per alte montagne nevose popolate di indiani, banditi e bisonti e, quando tornò sulla spiaggia, vide un moscone insediato in trincea con lui e la mamma. Un moscone giovane e bello; un vero moscone dotato di baffi, di denti bianchissimi, lavati con Ava bucato che, seduto a fianco di mamma, intratteneva la mamma, elogiava la mamma, glorificava la mamma e, raccontando fandonie, incantava la mamma, che rideva, rideva, rideva e, felice, parlava di lei, della nuova Parietti, della nonna, del tempo, di Baudo, del Giosuè lì presente e perfino del bilioso Rattazzo, bevendo le favole che raccontava il moscone, che intanto parlando e ridendo con lei, interrogava un Giosuè sospettoso. Un Giosuè che - Giosuè lo rimarca - mai e poi mai era andato a brucare con lui.

Giosuè lo disse alla Mamma che il tizio gli offriva degli stupidi Crafen, «Vuoi un Crafen Giosuè?» «Vuoi la menta Giosuè?», «Stai bene Giosuè?», «Vuoi fare il bagno?». Al che la mamma rispose: «E’ solo educato, Giosuè! Quanto sei sciocco!» ma Giosuè non demorse perché se voleva nuotare lo chiedeva alla mamma e non a quel tomo, se voleva una spuma la chiedeva alla mamma e non a quel tomo, che rideva come un gorilla e produceva risucchi che a Giosuè non piacevano come non piaceva il bel tomo.

Insomma che interessava a quell’essere infido se Giosuè stava bene o se voleva bagnarsi? Perché pretendeva di prendersi cura dell’essere battezzato Giosuè, quando quell’essere aveva una mamma e, soprattutto, un papà che avrebbe atterrato quel povero fesso con una sola, poderosa e tremenda panciata?

Questo pensava Giosuè in maniera stoltamente retorica perché quello stesso Giosuè dové presto toccare con mano che, se chiedeva una spuma da bere, la mamma udiva il moscone che rideva e ronzava, ma non quel Giosuè in procinto di morire per sete, per cui dovette urlare, Giosuè, e quando finalmente la mamma, udito il richiamo, disse a Giosuè di non fare la rugna, di calmarsi, di abbassare la voce, Giosuè tenne duro, protestando che moriva di sete, il che non commosse per nulla la mamma mentre lui fu accusato di fare i capricci.

«Voglio solo una spuma!» disse Giosuè.

«L’erba voglio non esiste neppure nei giardini del re» rispose la mamma.

«Ho sete» disse Giosuè e lo disse con tanto vigore che la mamma cedette.

«Andiamo a prenderla al bar» disse al moscone

E così un Giosuè immusonito li vide cinguettare, ballare, raggiungere il bar e sparire ridendo, il che aumentò la sua rabbia. Odiava il mondo, Giosuè, odiava il tomo narrante e ridente, odiava quella mamma ridente che, dimentica del lontano Rattazzo, era attenta solo al moscone, ma odiava pure se stesso, incapace di prendersi cura di lei che era pur sempre la solita mamma giuliva di sempre e così, alzando gli occhi all’azzurro del cielo, decise di essere buono. Fu quindi un Giosuè tollerante e gentile quello che accolse la mamma e il bel tomo; un Giosuè che, sorprendendo la mamma, la udì sospirare sorridendo al bel tomo:

«Oh, ecco il mio caro Giosuè!» e questo non piacque a Giosuè, che poi scoppiò pure in delirio quando vide una bottiglia d’arancia “Ma come,” disse a se stesso, “non ricorda neppure che volevo la spuma?” e allora si mise a pestare la sabbia, dicendo che voleva la spuma, che la mamma non sentiva un bel niente e, offeso fino al midollo, pianse di rabbia recriminando sul mondo, sulla madre cretina e, laggiù nel profondo, pure sull’indegno se stesso che piangeva come un qualsiasi marmagliatico bimbo.

«Abbiamo chiesto una bottiglia di spuma» diceva la mamma «Si saranno sbagliati.» ma Giosuè non solo non depose le armi, ma, intensificati sia l’urlo che il pianto, iniziò a battere i piedi finchè mamma, sempre più inquieta, s’arrese: «…se ti ho offeso? … ecco che torno e prendo la spuma…» Al che Giosuè, vittorioso, ribadì che voleva la spuma e così poté, gongolante, osservare la mamma incamminarsi a comprare la spuma e il bel tomo sorridere nero, tirato e schiumante di rabbia. Si sedette quel Giosuè vittorioso sul mondo, guardò la plebe scomposta, si bevve la spuma, degustò la tristezza di mamma, l’ira del tomo e, godendo la sua vittoria di Pirro, riprese il suo Tex, che, sgominati gli adoratori del fuoco, correva in aiuto ai coloni del Texas.

Arrivò, infatti, quel Pirro e quando Giosuè vide la mano del bullo volare nel cielo e posarsi sulla spalla di mamma, quel Pirro sogghignò come un topo; e quando la mano del bullo passeggiò sulla schiena di mamma e comparve sul lato sinistro, Giosuè si sentì morire di rabbia, mentre il bullo esultava, la mamma chiocciava e Pirro schiaffeggiava Giosuè che impotente vide la mamma vibrante di karma, sgambettare sulla spiaggia dorata inseguita dal bullo ridente; e mentre i due folleggiavano in acqua, la mamma toccando il bel tomo e il bel tomo, la mamma, Pirro sorrise per schernire Giosuè.

E fu così che Giosuè, come un povero scemo, con paletta, Pirro e secchiello si ritrovò a seguire la mamma e il moscone; allegramente ciancianti. La mamma controllava ogni tanto che, dietro, la molesta appendice Giosuè, con cappello e brachette canoniche,ancora esistesse mentre lei, scoppiettante di gioia, sorrideva al moscone e voleva che Giosuè sorridesse «Sorridi!», «Perché non sorridi?» diceva la mamma, invitando quel testardo, irritante, Giosuè rompiscatole a sorridere in un giorno tanto radioso. Perché non rideva? Perché non rideva mentre il cielo era azzurro, il mare in bonaccia e loro a passeggio? No, Giosuè non sorrise e anzi più nero del nero preannunciava tempeste tanto imminenti da indurre la mamma a cercare qualcosa che evitasse il disastro. Brancolava, dunque, affannata a cercare il qualcosa e brancolava il suo infido bullo che, scomparso in un amen, ricomparve in un amen, sollevando in un sacchetto di nylon un misero pesce rossastro, rifilato a Giosuè con un coro d’urletti di gioia «Vedi che bel pesce rosso! Vedi che ha trovato l’Aldino? Sai che facciamo?» esultava cinciallegra la mamma “Chissà che facciamo!” rantolava in silenzio Giosuè “Una folle goduria!” ridacchiava quel Pirro.

E così il Giosuè si ritrovò come un povero scemo col sacchetto del pesce, la paletta e il secchiello, fino a che passando di fianco a una vasca turistica, liberò la vittima pesce per la gioia di un’oscena marmaglia che pascolava piroscafi.

Poi continuò a camminare quel Giosuè con paletta, secchiello e sacchetto e cominciò a stivare dentro il sacchetto candide cacche di gabbiani e colombi, mentre irritato e impotente, guardava quei due che cianciavano allegri pappando il gelato. Vide di colpo, capì e predisse che la mamma, spaesata dallo iodio e dal sole, confusa dal parlare del tomo, sarebbe presto finita sotto il pesce moscone nella posa della Mugnaia porcona.

 

S’arrovellava Giosuè per prendersi cura di una mamma perpetuamente sconnessa, quando i due si fermarono a guardare scialli, pareo e foulard, «Quanto ti starebbe bene quel foulard annodato alla vita!» incoraggiò il tagliaboschi e la mamma mugnaia entrò nel negozio seguita dal guappo, da un Giosuè spaesato, da Pirro e dal sacco puzzolente di cacche.

La mamma provò il foulard sulla testa, sul collo, alla vita e il bellimbusto ammirando disse «Sei bella come una dea!» mentre lei in brodo di giuggiole, sorrideva allo specchio, non solo comprava quel foulard multiuso ma voleva che pure l’Aldino l’avesse e così l’Aldino in oggetto non se lo fece ripetere, lo prese di corsa e cominciò a dimenarsi davanti allo specchio, chiedendo al cielo e alla mamma «Come mi sta? Mi sta bene?» Al che, mentre il cielo rideva e Pirro rideva, la bella mugnaia, già pensando a un altro pennello, belò che gli stava a pennello.

Giosuè, inutile dirlo, assisteva al teatro e vedeva un altro teatro dove lei, mugnaia entusiasta, giocava col nuovo pennello mentre Pirro rideva, il pennello rideva, il mugnaio rideva e Giosuè non giocava al mugnaio né usava il pennello ma, dotato di un crafen, di secchiello, e paletta veniva spedito al di là del mulino a vedere in cielo i colombi infilzare colombe, in un sabba infernale di gabbiani, colombi, cacche e pennelli.

Su questo triste destino meditava il Giosuè quando qualcosa successe alla cassa fra i colombi tubanti con la rossa colomba che sputava veleno e il colombo che guardava in cagnesco, al che il redivivo Giosuè, visto che il pennello aveva una borsa, scaricò nella borsa la cacca, prima che lo stesso pennello, furente,uscisse chiamando ‘tardona’ la mamma.

E così uscirono la mamma col pacco, il mugnaio col sacco e la cacca e Giosuè col secchiello e la mano puzzolente di cacca.

La mamma già nera divenne più nera:

«Ma che hai fatto Giosuè? Dove hai messo la mano? E il pesce dov’è? Ma perchè devi rompere sempre!?»

E così Giosuè, che viaggiava con la mano spianata e lontana dal naso, approdato a una fonte e nettato, s’avviò con mamma, che a un Giosuè interrogante rispose:

«Voleva che pagassi il foulard»

«Il tuo?» chiese Giosuè

«Il suo!» rispose la mamma. Insomma il moscone voleva la paga per fare il mugnaio e mamma che, iodata com’era, non vedeva un bulletto ma un cavalier d’arme e d’amore, di colpo aveva visto il bulletto che parlava di fate, d’armi e d’amore, ma vendeva pennelli e colombi e così immantinente diede volo al colombo e biada al bel tomo.

La sera Giosuè e la mamma si consolarono con carote, piselli e un faraonico cono al limone. La mamma divorava con rabbia, ma non quel Giosuè che teneva lontana dal corpo la mano appestata e intrisa dai residui collosi di cacca, poichè il primo e il successivo lavaggio avevano appena intaccato gli strati del guano.

Giosuè che stava soffrendo, tentò di annullare quelle essenze malefiche col globo al limone ma il freddo aggravò l’infezione e mamma, nervosa, latrando cominciò un lungo sproloquio contro un Giosuè delirante, inetto, folle e sprecone. Giosuè protestò mostrando la mano intrisa di cacca, ma la mamma confuse non solo la cacca e il gelato, ma pure il Giosuè del mattino con quello serale, perdendo infine ogni santa pazienza, perché quel Giosuè continuava a parlare di cacche, colombi e veleni mentre l’altro, il Giosuè bistrattato, infetto e incompreso, scuoteva disperato la testa.

Giosuè subì l’onta di un altro furioso lavaggio ma, deriso da Pirro, continuò le sue lagne, fino a che mamma concluse che si andava a dormire e Giosuè assentì ma non prima di mettersi un guanto per bloccare l’infezione mortifera.

Quella notte Giosuè sognò Pirro e il moscone mugnaio che, mutato in cavaliere infernale, sul suo nero cavallo attaccava il castello, espugnava il castello e infilzava Giosuè e la mamma con un cazzo d’acciaio.

Sconvolto dall’orrenda visione si svegliò con la mano infuocata e, non osando togliere il guanto, corse allo specchio e urlò di spavento.

Poi tutto divenne frenetico; la mamma telefonò al lontano papa e al locale ospedale che inviò un dottorino appena adeguato per infarti e colpi di sole ma del tutto ignaro di patologie complesse del tipo Giosuè.

E, infatti, fu «Colpo di sole!» la prima, sicura, immutabile diagnosi emessa dallo stesso dottore che, annunciato al mondo il verdetto, dopo dodici colpi di sole e pronto a scappare, fu bloccato da una mamma in versione gorgonica:

«Lei resta! Lei misura la febbre! Lei sente il respiro! Lei visiona la mano!»

Il dottorino sbuffando eseguì, ribadendo «Colpo di sole! Tredicesimo colpo di sole e tredicesima madre impazzita»

Giosuè, inutile dirlo, apprezzò quel dottore impassibile, esecrando la mamma in versione sguaiata e plebea. Così, nonostante il dolore, decise di riacquistare la calma dell’usuale Giosuè che da sempre era conscio di essere oasi e parco, albergo, e ricovero per ogni batterio, eucariota o bacillo del mondo.

Perciò rimase tranquillo, sopportando il disordinato agitarsi di mamma, che, con scarsa cognizione di causa, sproloquiava su quell’essere anomalo che era Giosuè. «So tutto sui colpi di sole ma Giosuè non ha febbre, e poi l’ha vista la mano?» sbraitava la mamma al giovane inossidabile medico che alla fine, sbuffando, disposto il termometro, esaminati i crateri, auscultato il respiro, ordinò «Respira, non respirare, respira, non respirare» e, infine, osservata la mano infilata nel guanto, tentò di togliere il guanto. Giosuè ringhiò come un cane e allora il dottorino marittimo, stanco e irritato, lasciò in pace quel cane, sentenziò «La mano s’è fusa col guanto», ribadì ‘colpo di sole’, scrisse due fogli; per ricoverare Giosuè e la mamma gorgone e infine, in barba alle facce violacee, alle madri impazzite, ai colpi di sole, uscì, scavalcando la mamma, proprio mentre papà, annunciando il prossimo arrivo, sbraitava al telefono per la fretta di mamma di mandare Giosuè a farsi ammazzare al locale ospedale.

Debbo dire che il Giosuè di allora accolse con gioia la notizia dell’arrivo del padre, l’unico in grado di difendere il figlio Giosuè contro tutti, comprendendo nei tutti quel cavaliere dal “Cazzo d’acciaio”. Avvenne così che Giosuè si ritrovò in ospedale dove la mano fu liberata dai medici, veri nazisti al passo dell’oca, che lette le cartelle dell’essente Giosuè, tempestarono di domande mamma e papà, decretando per Giosuè un’allergia al colombo marittimo e per mamma e papà dei congeniti colpi di testa.

Dopo due giorni di austera penombra, Giosuè virò dal violaceo al porpora; dopo altri due giorni papà l’imbarcò sulla macchina e, scaricato quel triste ospedale dalle colpe passate, presenti e future, portò in salvo la mamma e Giosuè liberandoli, così, dai colombi, dal sole, dai dottori e dai beceri cavalieri infernali. Pirro, come sempre irridente, venne con noi.

 

 

L’incontro con la professoressa Alsazia

All’inizio del quarto anno di liceo, fece il suo ingresso la nuova cristianissima Alsazia, professoressa d’inglese con la faccia da picchio, pesante di sotto, svettante di sopra che, incernierata alla vita, svolazzò alla lavagna e cinguettò di poesia e poeti, mentre Giosuè, solitamente abulico e assente, scoprì in quei canti, balli e volteggi incredibili, qualcosa che cercava, sognava e bramava da sempre. Non lo capì subito, il Giosuè di quel mitico tempo, ma s’innamorò di quella donna che solida come un elefante di sotto e svettante come una giraffa di sopra, passava dalla lavagna alla classe, ruotando sulla cerniera del busto, con tanta armonia da abbagliare un Giosuè già tramortito dal cinguettio di Milton.

Insomma fu subito amore. «E’ la lingua di Byron!» diceva l’Alsazia con una serie di trilli soavi e quel Giosuè silenzioso e scontroso, salì in paradiso e là, tra l’azzurro del cielo e il canto degli angeli, si beò, innamorato, di quel cherubino che, garrulo volteggiava quaggiù. Incantato, Giosuè, rimase lassù mentre giù la teppa e la cagna ridevano di quel ridicolo ibrido d’elefanti e giraffe.

Giosuè innamorato, sedotto da quelle forme, incantato dall’usignolo di Byron, imparò a memoria quei poemi incredibili e visse in attesa tremante d’essere visto da lei. Studiò a testa bassa l’inglese, quel nuovo Giosuè. Studiò i verbi, le prose, i poeti e la casa risuonò dei suoi suoni che chiedevano dov’era la strada, se il tempo era bello, se la stanza era libera. Studiò non solo i poeti, ma pure i pittori, il lavoro, il clima, la storia, i filosofi in un’orgia di rutilanti inflessioni, correzioni, riprese, di this e di that, sorprendendo mamma e papà, stupiti di tanta euforia in quel loro Giosuè da tempo silente che abitava la scuola come un’ombra, un respiro, un fantasma incorporeo.

 

Era cotto Giosuè! Quando vedeva l’Alsazia sentiva il suo cuore battere come un tamburo e salire, sotto forma d’arsura, a occupare la gola. Pensavano sempre all’Alsazia, l’anima e il cuore di quel nuovo Giosuè, mentre il corpo si congiunse col cuore proiettandosi, fuori, verso il cosmo infinito e, all’interno, fin dentro le cellule. Sentì, Giosuè, risuonare esigenze nascoste; sentì emergere il magma, gemere il cuore, levarsi e correre i sogni perché quel Giosuè divenuto ansioso e voglioso come il cavaliere con la bella mugnaia, voleva anche lui correre per valli e per boschi, incontrare l’Alsazia, salvare l’Alsazia, assaltare l’Alsazia. E così, cominciò a evocarla e sognarla nel buio, ad evocare banditi, orridi mostri, bande di bruti. E lei, luminosa, catturata dai bruti e lui, l’eroe che accorreva a salvarla e il cigno cantante, la plebe, le gabbie, le sciocche poppute, le zampe dei mostri, le arpie bavose e il satanico nero.

Allora partiva quel Giosuè sul fremente destriero e, ingaggiando una lotta di orrori e di sangue, dopo un mirabolante incrociar di cavalli, di lance e di spade, infilzava il satanico nero. S’illuminava l’Alsazia “Tu, mio glorioso Giosuè, tu fulgido angelo” e accoglieva con gioia il glorioso Giosuè, la fulgida, eterea Alsazia, e, con lui, tutto il suo amore, mormorando al suo orecchio “Sono tua per sempre, Giosuè!”

Ma purtroppo quel Giosuè innamorato vedeva l’enorme baratro tra lui con le pustole e l’eterea, cinguettante, fantastica Alsazia che volteggiava illustrando i poeti e sorridendo alla vita e perfino alla vile teppaglia. Solo nel bagno di casa, Giosuè, seduto sul Water s’abbandonava alle orge barocche dell’estasi. E allora la raffigurava lassù a nord-ovest, emersa dal nulla, sorridere e scendere verso un Giosuè che si menava piangendo e sognando, salendo nel cielo e precipitando all’inferno.

Papà, di fronte al nuovo Giosuè scuoteva la testa, mamma si rivolgeva alla zia chiedendo «Ma che sta succedendo?» per poi tornare ai depressi purè, l’unica a interrogarsi davvero era la zia che tentò di sondare quel Giosuè amatissimo senza cavare un ragno dal buco, perché Giosuè era nel regno dei cieli e nelle fiamme infernali, perché era etereo, perché, distratto dal mondo, null’altro vedeva se non la bellezza di quell’Alsazia svettante che occupava il suo intero orizzonte e così, cieco, sordo, cotto dal fuoco d’amore, a scuola recitava i poeti di fronte all’Alsazia frizzante, di fronte agli idioti ridacchianti compagni, stupendo la prima e i secondi, i secondi che videro che esisteva un Giosuè e la prima che incredula s’incantava di fronte a un essere che, come Giosuè, amava i poeti, li imparava a memoria e recitava in inglese perfino le previsioni del tempo e il clima di Londra

«Troppo! Troppo!» esultava l’Alsazia all’allievo Giosuè.

Ma era comunque felice l’Alsazia per quel grandioso Giosuè, quando, a sentire i colleghi, quello stesso Giosuè, che nell’intrepida lingua parlava, cantava, e tossiva, nelle altre materie vivacchiava in silenzio, tanto invisibile che all’Alsazia, neo arrivata, le colleghe, degnandosi, rispondevano appena che sì, che esisteva un Rattazzo Giosuè pustoloso, ma era tanto invisibile che si doveva raccattare il registro, compulsare il registro, percorrere righe e concludere che sì, che Rattazzo Giosuè respirava, esisteva, rispondeva con sufficienza agli orali e compilava benino le prove. Esisteva insomma e non rompeva i marroni, ma «Santo dio!» aggiungevano, guardando con sgarbo quel mostro d’Alsazia, vestita da suora ridacchianti «Vegeta; vegeta come un ignavo ed è una fortuna conoscendo il padre e la madre!»

«Perché?» chiedeva l’Alsazia

«Perché il padre era nostro collega: un pazzo accidioso e bilioso e la madre s’è scopata un intero paese.

La quarta e la quinta furono anni in cui Giosuè vide con costanza l’Alsazia, studiò per l’Alsazia, e, mentre l’Alzaia impavida, garrulava l’inglese di Scott, di Byron e Coleridge, Giosuè studiava la vita, leggeva le opere e spaziava dall’usignolo di Keats fino a Cherteston, Wells, Kipling e Wilde citando e citando fino a stordirla, tanto che accadde ciò che doveva accadere e, così, un giovedì, in un fatale intervallo, s’avvicinò a Giosuè e, complimentandosi, volle sapere di tanto possente e vasta passione, al che l’emozionato Giosuè, che attendeva e sperava proprio quella domanda, tremante, timido e rosso, farfugliò, ma comunque riuscì a riprendere il filo e, chiacchierando, vibrante, emozionato, incantato, venne a sapere che, come lui, anche l’Alsazia amava i pittori.

«Nel tempo libero» disse l’Alsazia «fotografo e faccio ricerche …» ma suonò la campana e lei «Santo cielo, devo correre in terza!» e ruotò scomparendo in un amen.

Il giorno dopo, per una provvidenziale assemblea, Giosuè poté nuovamente avvicinare l’Alsazia, parlare, ascoltare, ascoltare e parlare, in un brulicar d’emozioni, di inglesi, di chiese e di pale, mentre l’Alsazia raccontava della sua esaltante passione, di come fotografasse, da sola, le chiese, gli altari, le pale, di come spulciasse gli archivi, scoprendo mondi sepolti, vite passate, eventi incredibili:

«Non è la storia che si studia a scuola, ma sono sentieri» disse ispirata «e dietro una chiesa che nasce, che cresce, dietro le vite e i sentimenti di chi ciecamente la volle, passano i secoli, le passioni e le morti: un universo, Rattazzo, un mondo di cuori, entusiasmi e dolori…

Parlò con passione e cinguettò a lungo quell’essere garrulo tanto vicina a Giosuè da camminargli sul cuore. Si dimenticò d’essere a scuola il Rattazzo Giosuè, dimenticò il mondo, salì in paradiso e visse lassù col morale alle stelle, tacendo, ascoltando stregato e, animato da brio e nuova energia, cominciando pure lui a parlare di pittori e di pale, descrisse le visite della sua fanciullezza con tanta passione e mistero che l’Alsazia, ascoltò incantata quel Rattazzo, non solo estimatore di Byron e del tempo di Londra, ma appassionato cultore di chiese.

«Naturalmente ero un bambino…» sussurrava Giosuè ma l’Alsazia, infervorata, disse che no, che quel Giosuè le sembrava incredibile, il che fece salire Giosuè sulle stelle, in mistica unione con le pitagoriche sfere, finchè l’Alsazia cinguettò da una nuvola che il tempo correva:

«Ruit irreparabile tempus.» disse «Arriverà all’autoporto la mia nuova attrezzatura; m’arriveranno nuove luci e treppiedi; ho risparmiato perfino i caffè per comprarli. Speriamo di trovare un’anima buona per caricare... »

«Ma ci sono io professoressa!» disse in delirio Giosuè

«Tu m’aiuteresti?» chiese quell’essere, lanciando bagliori di gioia.

«Verresti?» ripeté cinguettante «Davvero verresti?» mentre Giosuè, stordito e cotto qual era, capiva solo quel tanto da rispondere ‘Sì’, che Giosuè era lì, che Giosuè avrebbe fatto il possibile caricandosi come un titanico mulo per aiutare lei, essere angelico, fatto di carne, di flauti e d’amore.

«Sarò lì» disse Giosuè «mi dia l’indirizzo.» e scappò perché aveva i visceri in totale disordine, perchè temeva che tutto svanisse.

 

 

 

LEGGI DELLA TREMENDA BATTAGLIA A TORINO FRA LA SIGNORA DELLE OLIMPIADI E IL DEMONIO

 

 

Nella nuova Torino si dipanano grandi e tempestosi amori. La città, guidata dalla splendente Signora delle Olimpiadi, vive giorni febbrili. Scoppia l'allegria, arrivano i turisti, sfila il mitico circo Balivo, si susseguono le brillanti feste totemiche. Nel superbo Palazzo Reale convengono le glorie piemontesi e s'espandono nel mondo le immagini della festa, ma durante la fastosa cena...

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