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TESTI DI FILOSOFIA

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PARTITA A POCHER NEGLI ALTI SALOTTI OVATTATI E DORATI DEKLL?ALTA E ALTUSSIMA ELITE; DELL'ALTA E ALTISSIMA CULTURA CHE INDEFESSAMENTE PENSA E LAVORA PER NOI PER I TERREMOTATI; PER GLI AFFAMATI; PER GLI ASSETATI DELLA TERRA
PARTITA A POCHER NEGLI ALTI SALOTTI OVATTATI E DORATI DEKLL?ALTA E ALTUSSIMA ELITE; DELL'ALTA E ALTISSIMA CULTURA CHE INDEFESSAMENTE PENSA E LAVORA PER NOI PER I TERREMOTATI; PER GLI AFFAMATI; PER GLI ASSETATI DELLA TERRA

GIOSUÈ –GROTTESCO STRAVINSKIJ- parte prima - capitolo I

 

Il cielo Malva 

 

In quella notte il cielo di Torino si ricoprì di una nube color malva. La videro gli ultimi nottambuli e la sognò l’Editore Assalonga risvegliatosi con un’acuta sensazione di disagio. Ricordava il cielo malva, le acque vorticose del Po’ e un piccolo demonio che sul ponte di Corso Regina, lo fronteggiava «Lei è matto! Io vendere la mia Enciclopedia al Gagà?» ma quel demonietto, piccolo e maligno, non demordeva «Questa si che è tutta da ridere!» E rise, infatti, l’Assalonga, rise come un ossesso! Lui vendere la Gran Diderot? La Summa del secolo, l’arabesco sinfonico? L’opera che l’avrebbe reso immortale? «No!» ribadì. Venderla a quell’infido pieno di sé, a quell’Einaudi falso e cortese, a quel Sotutto che lo guardava come una cacca? «Non se ne parla!» E liquidò la faccenda con un’altra risata, per ritrovarsi, in meno di un amen, sospeso sui gorghi del Po’ mentre, terrorizzato dai vortici, urlava che sì, che avrebbe venduto al Gagà, al che, di colpo, fu salvo sul ponte a fissare l’improbabile botolo; poi il ponte e il demonio scomparvero, mentre lui veniva morsicato da un cane.

 

«Che brutto sogno!» pensò guardando le sue gambe rachitiche «Ma cosa ho sognato?

Con un balzo fu in piedi «Al lavoro! Al lavoro!» gridò ma il suo prodigioso balzo in avanti fu bloccato da un lancinante dolore al polpaccio. «E cos’è questo?» borbottò osservando i segni di un morso. Ma era volitivo e dinamico il tremendo Assalonga e, così, riavutosi dalla sorpresa, rigettata quella demenza notturna, si alzò, si lavò e, fasciatosi con una garza, zoppicando, volò in editrice con la sua Alfa mentre la portinaia anonimamente telefonava a La Stampa che quel sozzone dell’editore Assalonga, uscito a mezzanotte in vestaglia come un vampiro, era rientrato alle tre, scarmigliato, con la gamba grondante di sangue, per rifugiarsi di sopra, donde era appena riemerso candido come una rosa.

«Forse vuol dire fresco come una rosa» l’aveva interrotta il giornalista e lei, stupefatta, irritata, infuriata l’aveva mandato all’inferno.

L’Assalonga entrò in editrice, si rinchiuse in ufficio e alienò per telefono all’odiato Gagà la sua amata Enciclopedia. “Ma perché ho ceduto la mia Enciclopedia al Gagà?” si chiese confuso “Perché proprio a lui che mi guarda come una cimice.” Ma l’Assalonga era chi era e, superato il deprecabile attimo, fece convocare il Critico Gauss e il traduttore Bombelli dalla sua grigia, efficiente segretaria Gauss, che all’istante provvide, mentre come falchi dal cielo piombavano facchini, avvocati, dirigenti del famigerato Gagà per ritirare elaborati e contratti, tra la sconcertata incredulità dei dipendenti che subito improvvisarono un nervoso, allarmato pellegrinaggio all’ufficio dell’Assalonga. Un pellegrinaggio che, vanamente ostacolato dalla signora Gauss, fu annientato in un amen dal mastino Assalonga con una sola, breve, secca abbaiata.

Li cacciò ma cadde in struggente scoramento, il disperato Assalonga: “Ma perché l’ho ceduta al Gagà?” ripeté, fino a che, esaurite le lacrime, si rimise al lavoro, mentre l’intera editrice bolliva e decretava un Assalonga impazzito. Una contabile parlò del cielo notturno color malva e dei torinesi «Sembrano tutti assatanati.» sibilò e afferrato il telefono comunicò a La Stampa l’incredibile vendita.

«E allora?» chiese il giornalista.

«E’ come se avesse venduto il suo cuore» gli rispose la contabile.

L’unico a non rammaricarsi fu il critico Gauss che commentò:

«Meglio così! Non falliremo noi, ma l’Einaudi.

«Dice così perché non è fra gli autori.» sibilò a mezza voce la vecchia zitella della contabilità «Quel pomposo sa solo trombare attricette! Povera moglie!», «E chi andrebbe con quel frigorifero» commentò un’altra voce. E con ciò si chiuse questo stralunato intermezzo perché, se i dipendenti detestavano il critico Gauss, non amavano certo la sua austera e rigida moglie, più potente dei dirigenti, l’unica a dar del tu al padrone, anche se qualcuno insinuava che la grigia segretaria, colorata e vestita come si deve, non era poi male.

Intanto il giornalista, posato il telefono, si era recato dal direttore, a riferire della prima e della seconda telefonata al che il direttore, sogghignando all’immagine di un Assalonga nudo e notturno che vendeva la sua Diderot al Gagà, sbuffò:

«Vedremo. Ora indaghiamo sulla nube purpurea.

«Non è così che si fa un giornale!» borbottò il giornalista, rifugiandosi in bagno.

L’editore Assalonga assegna i compiti

Privato della sua amata Enciclopedia, l’Assalonga, per celebrare il ventennio della casa editrice, decise di stampare il primo dattiloscritto pervenuto in lettura vent’anni prima. Ricordava un romanzo che parlava, di Foibe e Titini, impubblicabile quindi, in quei tristissimi tempi ma pubblicabile ora.

L’Editore aveva a suo tempo risposto all’autore: “Apprezzo la sincerità, la passione con cui lei scrive ma lo stile, sovrabbondante negli aggettivi, andrebbe domato. Consiglio una riscrittura conforme”; consiglio che non era stato accolto visto che, tre anni dopo, la riscrittura s’era rivelata un pasticciato collage del vecchio romanzo e di secondo totalmente diverso. Così anche quella seconda versione era finita a dormire in archivio.

«Bene» commentò la signora Gauss con avaro sorriso «Vado in archivio» disse e, senza indugiare, sparì.

“Perché ho venduto l’Enciclopedia?” tornò a chiedersi amareggiato, grattandosi la ferita alla gamba. Ma la visione dell’odiato Einaudi in galera, gli riportò l’allegria. L’Assalonga rise fra sé: “Quello stupido snob!” s’infiammò “L’arlecchino che fa Tik-Tak!.. Ma che dico? Sto impazzendo?” Ma neppure l’inquietante dubbio riuscì a fermare il delirio.

Quello stesso giorno i dattiloscritti, ripescati in archivio dalla signora Gauss, furono assegnati da un euforico Assalonga al professor Fato Bombelli, traduttore, e al critico Gauss, marito della signora Gauss nonché critico letterario, assai poco apprezzato dall’Assalonga.

«Ma questo Bombelli…?» aveva chiesto dubbioso alla signora Gauss.

«Si è dimostrato un ottimo revisore.» aveva risposto lei asciutta e l’Assalonga aveva accettato il suo competente giudizio, anche se quel Bombelli gli rompeva periodicamente i marroni per poter firmare recensioni; destinate, purtroppo, a quell’infido Gauss, che cornificava la moglie con attricette.

Quando i tre si riunirono nel suo studio, l’Assalonga affidò l’editing al professor Bombelli e la supervisione al critico Gauss:

«Questo è il primo romanzo inviato in visione alla casa editrice: un nuovo Faust? La storia di un bilioso esule? Non ricordo! Forse anche un pasticcio teologico. Ricordo che comincia con Satana che sale in paradiso per sfidare dio e scopre che dio è scomparso e poi…, beh, ve la vedrete voi…» si alzò sorridente e con due energiche strette di mano li liquidò.

Nessuno dei tre immaginava allora, ricevendo copia dei manoscritti, che i protagonisti del romanzo fossero vivi e vegeti.

 

Al critico Gauss non piacque per nulla quella supervisione. Che senso aveva? E poi che c’entrava quel grigio Bombelli. “Bombelli!” ruggì dentro di sé. “Il critico Gauss ti spremerà fino all’ultima goccia” sogghignò: “Rifare!”, “Rifare!”, “Rifare!” esultò pregustando la nuova tortura.

“L’ultimo supervisore sono io” rideva fra sè un gongolante Assalonga. “Lui in giro a trombare attricette e veline e lei, grigia, a invecchiare…”

Chiuso il colloquio, li accompagnò alla porta, dove salutò con rispetto la signora Gauss, tessendo, con sarcastica malignità, brevi ma intensi elogi alle sue immense doti, e lasciando chiaramente trapelare, che, se quell’odioso e pomposo Gauss scriveva articoli e recensioni, il merito era tutto di lei.

«Ah, che splendore di donna ha sposato, critico Gauss!» declamò con mellifluo sogghigno mentre il critico annuiva con sorriso forzato, giallo e tirato come un limone. «Mi dissangua con lo stipendio, caro Gauss, ma se lo merita e come! Dirige, assegna, programma, controlla… Come farei senza di lei?»

 

Anche il mite e timido Fato Bombelli s’era stupito per la stranezza dell’incarico. Era sempre la signora Gauss, a consegnargli con magro sorriso il dattiloscritto. Lo faceva firmare e si salutavano: lei, meccanicamente austera e gentile, gli augurava un buon lavoro e lui, a capo chino, ringraziava. Mai avrebbe allora immaginato che di lì a poco si sarebbe perdutamente innamorato di lei.

 

Fato Bombelli, a casa, aprì il pacco del dattiloscritto, lo soppesò e lo spulciò, irritandosi per i fogli non numerati. Numerò quindi le circa duecentocinquanta pagine nello stesso ordine con cui le aveva ricevute. Mentre numerava, notò che a un’introduzione seguiva un secondo capitolo: Giosuè all’Asilo, un terzo Giosuè e la Mamma, un titolo senza capitolo, un sesto La professoressa Alsazia, altri capitoli senza titolo e due indici diversi fra loro. Deducendo una consegna incompleta, telefonò alla signora Gauss, che gentile e formale, rispose:

«Ormai è tardi, professore. Possiamo sentirci domani nel primo pomeriggio?»

Il professore ringraziò, piacevolmente sorpreso dalla gradevole voce di lei e, nutritosi parcamente con una densa minestra, inizio la lettura.

Vita all’asilo

Fin dal primo giorno Giosuè fu presente al catechismo di suor Ermergarda che, alta, diritta, severa domava la sregolata marmaglia, disponendola in circolo nella sala più grande. La sala terminava con un gran semicerchio e solenni finestre sormontate da archi che si spingevano fino al soffitto. Tanto grandiose che il lillipuziano Giosuè, in piedi, al centro del cerchio, vedeva il parco, il gioco da bocce e, oltre la cinta, il campanile e le lontane montagne.

Lungo quel circolo stavano i piccoli banchi dei bimbi sfrenati mentre al centro stava suor Ermergarda che, fin dal suo primo apparire, domò la scomposta feccia col fuoco degli occhi. Diceva: «Seduti!» e la feccia vigliacca s’accucciava in silenzio, ogni bimbo al suo banco. Così l’agglomerato pestifero di piccole belve, ridotte a pecore vili e meschine, ascoltava suor Ermergarda che parlava di Dio.

Dalla sua voce Giosuè imparò il catechismo e la Bibbia. «Genesi, Esodo, Levitico, Numeri» recitava tonante suor Ermengarda «Giudici, Deuteronomio, Giosuè, Ruth, Primo Re, Secondo Re, Terzo Re, Quarto Re, Primo Paralipomeni, Secondo Paralipomeni, Primo Esdra, Secondo Esdra, Tobia, Giuditta, Ester, primo Maccabei secondo Maccabei Giobbe e Salmi, e tutti i bimbi ripetevano a turno ma Giosuè non riferisce neppure quali spropositi uscivano dalle bocche di quei poveri scemi, capaci solo di sporcarsi come maiali, ridere, piangere, bagnarsi le brache, infilare un dito nel naso e succhiare quel dito.

Giosuè si chiedeva perché non riuscissero a pronunciare ‘Paralipomeni’, perché ridacchiassero a sentire il nome di ‘Ruth’, perché confondessero Esdra con Ester, perché riuscissero solo a strillare, rugnare, ridere e parlare di ‘pappa’ e di ‘bombo’, di ‘pipì’ e ‘pupù’, mentre solo Giosuè declamava solenne i libri e i profeti: Proverbi, Sapienza, Ecclesiastico, Baruch, Daniele, Ezechiele, Osea, Ioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Cantico dei Cantici.

Giosuè, accettato all’asilo nonostante i suoi brufoli, fu subito messo da parte. Questo non dispiacque a Giosuè ché, anzi, fin dal primo e isterico giorno d’asilo, disprezzò quei fifoni rugnanti che volevano mamma, si aggrappavano a mamma e facevan cagnara disubbidendo alle suore, prendendosi a calci e prendendole a calci.

 

Suor Eugenia sorvegliava quei bimbi e doveva spesso sgridarli, perché, santo cielo, dopo aver detto e ridetto: «Mettetevi in fila, aprite la valvola, prendete il sapone, bagnate le mani, insaponate le mani, risciacquate le mani, asciugate le mani» doveva correre fra quei tre rubinetti perché il primo non rimboccava, il secondo annaffiava i vestiti, il terzo annaffiava il secondo e così quei gaglioffi, che prima ridevano e urlavano come baluba, alla fine si mettevano a piangere e la suora accorreva per dire «Povero caro! ».

Questo Giosuè lo capiva per\ché i gaglioffi rompevano i timpani ma non che la suora facesse le coccole sbaciucchiandoli a destra e a sinistra.

Giosuè esecrava in silenzio che esseri come le suore sbracassero in quella maniera. Esecrava che fossero fatte - non certo suor Ermergarda - di pasta tanto plebea. Esecrava che, quando un qualsiasi acefalo importunava una volta, un’altra, una terza, suor Eugenia, in nome di una seria statura morale, non afferrasse con una mano quel bimbo e rifilasse uno schiaffone con l’altra. Ma Eugenia era com’era e Giosuè non poteva certo approvare quell’abbandono dell’etica, quel cedimento morale che permetteva al bimbo di fare l’idiota e alla suora di curare l’idiota.

Così quella suora non avrebbe dovuto sgridare Giosuè quando rifilava qualche sacro ceffone allorché, messosi in fila, svolgeva i suoi compiti con decenza e decoro, non rifilava calci e spintoni, ma neppure li accettava senza fiatare. Perché non capiva che Giosuè collaborava con lei per la dignità dell’asilo? Perché non vedeva quanto Giosuè aspettasse con santa pazienza il suo turno e, senza bagnare, compisse le dovute abluzioni, passando da un’insaponatura completa, a un risciacquo abbondante per, infine, nettarsi con uno straccio ormai lurido dei letami dei bimbi?

Eugenia diceva ‘Bravo’ a Giosuè, quando, al termine di un’abluzione esemplare, mostrava le mani, sulle palme e sul dorso, ma sgridava quello stesso Giosuè quando, scalciato, rispondeva scalciando. Allora quell’Eugenia plebea dimenticava quei ‘bravo’ e anzi, coccolando il selvaggio, gli diceva «Stai bravo, ecco il bombo» regalando davvero un bombo a quel bimbo che pappava quel bombo alla faccia del mondo, della stupida suora e dell’innocente Giosuè che, pigliatosi il calcio, si mangiava la bile, mentre il bimbo, rifilato quel calcio, si mangiava quel bombo.

Deprecava Giosuè che nei cessi la teppaglia la facesse al’esterno del buco, e, non contenta, cadesse in quel buco e, non contenta, si riempisse di cacca, per poi mettersi a piangere e invocare la suora che accorreva a salvare quell’ebete, a rincuorare quell’anima, come se fosse impossibile mettersi in posa e restarci invece di alzarsi, girarsi, toccarsi e lasciarne da tutte le parti. Deprecava Giosuè che quella suora ordinaria accompagnasse le pesti fuori del bagno, prendesse uno straccio - sempre lo stesso - e, dopo averlo inzuppato, pulisse i culetti, controllando la cacca e addirittura assaggiandola, per poi assolvere con buffetto affettuoso il caccatore di turno e, col sorriso e un «Avanti!», avviare la peste seguente, la cacca seguente.

Giosuè non volle mai accennare come nel suo bagno di casa, sgrossasse con la carta la cacca, per poi farsi il bidè con acqua e sapone, come conviene a un bimbo civile e non a quei barbari e a quella porcacciona di suora, ma ribadì di rifiutare lo straccio e di volerne uno nuovo. Un nulla secondo Giosuè, ma un obbrobrio per quella suora plebea che gli assaggiava la cacca e dava un giudizio, che Giosuè, per decenza, non vuole ripetere. Ma tant’è, pensava Giosuè, c’era pur un motivo se Ermergarda declamava i profeti e Eugenia puliva le cacche.

E così da quel giorno Giosuè portò da casa il suo straccio con cui si nettava e puliva per poi nasconderlo in un sacchetto di nylon in cartella e farlo lavare. Ma la cosa creò un’inimicizia profonda tra Giosuè e quella suora indecente che continuò a pulire, annusare, assaggiare la cacca di tutti ma non di Giosuè che rifiutava tanto lo straccio che l’esame del gusto dal quale forse la suora, nella sua indegna ignoranza, rintracciava essenze sulfuree o tracce di demoni.

Ciò nonostante Giosuè non può che concludere che fu molto felice all’asilo; correva in cortile, correva nel campo da bocce, saliva sui piccoli platani, scavava, sradicava gramigna, cantava nel coro, recitava con tutti la preghiera e, da solo, i profeti. I nomi di Genesi Esodo Levitico Numeri Giosuè e quelli di Isaia, Geremia e Giona, risuonavano nel grande stanzone mentre l’agglomerato taceva e sentiva Giosuè declamare i profeti guardando verso suor Ermergarda che mandava lampi d’orgoglio.

Poi continuava, Giosuè, con le corse in giardino e coi giochi nell’aula, dove, conscio dei bubboni del volto, appartato in un angolo, osservava il flusso del mondo, le bave dei bimbi e i loro disastri.

Benché Giosuè li evitasse e si tenesse lontano, i ragazzi non sempre lo lasciavano in pace. Lui, nel suo angolo, tutto voleva tranne che sentirsi toccato da loro che, perversi com’erano, cercavano invece Giosuè.

Così, all’improvviso, Giosuè veniva visto, raggiunto, scrutato, interrogato nella lingua ostrogota dei bimbi che volevano macellare i suoi occhi, strizzargli i bubboni, prenderlo a calci e, alla fine, mettersi a piangere quando Giosuè rispondeva ai calci coi calci e, in nome di un’etica biblica, assumeva un aspetto diabolico. Gonfiava il collo, Giosuè, gonfiava le vene, digrignava i canini e tratteneva il respiro, fino a che il sangue affluiva colorando di rosso carminio la faccia, le gote, le vene e le pustole. Poi ringhiava rabbioso, Giosuè, aprendo e chiudendo le fauci, per spaventare la feccia e tenerla lontana.

 

Un fatto vuol citare Giosuè. Accadde, alla fine dei suoi anni d’Asilo, che si perse Graziano, un gran prepotente che detestava Giosuè che detestava Graziano. All’appello, dopo l’ora di giochi e balocchi, Graziano mancava e allora la suora si mise a cercare Graziano e a chiamare «Grazianoo!... Grazianoo!» assieme a tutte le pesti mentre Giosuè rimaneva tranquillo nel suo solito angolo, finché la suora non disse «Giosuè cerca anche tu!»

Giosuè, portandosi dietro la suora, si diresse al piano di sopra e in punta di piedi, entrò nella camera bianca, linda, pulita di suor Ermengarda. Ammirò, Giosuè, quella stanza essenziale con un rosario di grani nerissimi e un gran crocifisso “Ciao piccola stanza linda e pulita” disse Giosuè mentre di sotto la giuda arrivò ai bordi del pozzo dove giaceva Graziano.

 

LEGGI DELLA TREMENDA BATTAGLIA A TORINO FRA LA SIGNORA DELLE OLIMPIADI E IL DEMONIO

 

 

Nella nuova Torino si dipanano grandi e tempestosi amori. La città, guidata dalla splendente Signora delle Olimpiadi, vive giorni febbrili. Scoppia l'allegria, arrivano i turisti, sfila il mitico circo Balivo, si susseguono le brillanti feste totemiche. Nel superbo Palazzo Reale convengono le glorie piemontesi e s'espandono nel mondo le immagini della festa, ma durante la fastosa cena...

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